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La didattica che non funziona (secondo Invalsi)

Finalmente possiamo dare un contenuto tangibile al fatidico termine introdotto dall’attuale ministro per ribattezzare l’ormai ex MIUR.    Ebbene sì, è merito di Valditara, e delle misure varate nei primi due anni di governo, se quest’anno sono stati raggiunti, a suo dire, “importanti miglioramenti”[1] nelle prove Invalsi. D’altronde il ministro non è nuovo a queste entusiastiche esternazioni: a quanto pare, sempre per merito del suo dicastero, i docenti italiani hanno ricevuto un sensibile aumento stipendiale, tale da scalare la classifica europea nel giro di un anno [2]. Ormai abituati alla narrazione sapientemente avventata del ministro, ciò che preoccupa in questa ennesima ondata estiva di dichiarazioni, interpretazioni e soluzioni prêt-â-porter che seguono il ritualistico rapporto Invalsi, è l’affermazione tanto calcolata quanto pericolosa del presidente dell’omonimo istituto, Roberto Ricci. Il quale sentenzia, come un profeta dispensatore di verità indiscusse e indiscutibili, che la didattica della scuola italiana non funziona [3]. Come fa a dirlo? Semplice: gli ultimi dati Invalsi non solo replicano nella sostanza quelli degli ultimi anni, ma denunciano un certo peggioramento nel sempre benemerito Nord. Non lasciamoci ingannare dall’apparente contraddizione delle dichiarazioni dei due rappresentanti ufficiali in questa girandola di baldanzosi interventi. Se Valditara sfrutta quel poco di miglioramento (e se fosse casuale?) che è possibile intravedere in questi ultimi dati, come il decremento di un punto percentuale sulla dispersione implicita, lo fa per persuadere i suoi detrattori della giustezza della strada che ha imboccato; Ricci, dal canto suo, usa quel tanto di peggioramento (e se fosse altrettanto casuale?) che è possibile ricavare da una situazione sostanzialmente in stallo, per perseguire l’ormai evidente scopo ultimo della fabbrica Invalsi: il disciplinamento del corpo docente e degli studenti. Ci sono parecchie spie, a partire proprio dall’uso al singolare della parola “didattica”. Verrebbe da chiedersi in effetti a quale didattica qui si faccia riferimento, ma non conta, l’importante è dare in pasto all’opinione pubblica una categoria dai tratti sfuggenti per cui ciascuno, pensando ai propri insegnanti di qualche primavera fa, o a quelli attuali del figlio o della figlia, o di un qualunque giovane parente, si faccia una sua idea, magari del tutto fantasmagorica. Del resto non è forse in questo modo che nel tempo si sono imposte, è il caso di dirlo, le prove Invalsi? È bastato adoperare i termini “oggettivo”, “dati”, “competenze di base”, “livelli”, “cultura della valutazione”, per farci credere che sia stato scovato l’unico sistema di valutazione possibile, persino a prova di infallibilità. Poco conta che l’oggettività dello strumento e dei dati ricavabili dalla sua applicazione non determini affatto la neutralità delle interpretazioni che se ne possono dare, ma che al contrario dipendono dall’orientamento di chi li legge; come del resto hanno dimostrato involontariamente gli stessi Valditara e Ricci con le loro letture contrapposte. Eppure, ancora una volta, assistiamo all’affermazione del “punto di vista senza collocazione” [4] con cui l’opinione pubblica è tratta in inganno, grazie anche all’uso dei numeri e delle percentuali sciorinate sui giornali come una mitragliata che non lascia scampo. In realtà dietro questi test cosiddetti oggettivi [5], portati a sistema, si celano scelte strategiche guidate da scopi precisi, che poco o nulla hanno a che fare con l’apprendimento, ma hanno molto più a che vedere con una certa visione del mondo (utilitaristica, individualistica, meritocratica) verso cui la scuola deve porsi al servizio. Ci hanno fatto credere, per esempio, che scopo degli Invalsi sarebbe stato quello di valutare il sistema scuola, per risolverne carenze e disuguaglianze a favore soprattutto dei più deboli [6], quando in realtà è ormai chiaro che sono adoperate per valutare le singole scuole, i singoli docenti e i singoli studenti. A cui addossare tutte le responsabilità degli eventuali fallimenti educativi, e per questa via arrivare in modo surrettizio a non chiamare più in causa, e quindi a non modificare, le iniquità strutturali dell’ordinamento economico e sociale in cui si opera e si tenta di progettare il proprio destino. Istruzione e merito, il binomio è servito! C’è scritto nero su bianco, basta rispolverare le direttive ministeriali del 2008, varato dall’allora ministra Gelmini [7], in cui si legge a chiare lettere che l’Istituto Invalsi è chiamato a una ricognizione delle metodiche per la valutazione degli insegnanti a fini premiali di carriera e retribuzione; direttiva supportata anche da un opuscolo OCSE, tradotto in italiano dall’Invalsi stesso nel 2012, in cui si auspica che la retribuzione basata sulla prestazione possa divenire un’opzione politica praticabile[8]. Insomma, il trionfo dell’individualismo, con tutto ciò che ne consegue, soprattutto in termini di competizione e di distribuzione anticipata di meriti e colpe; in barba alle specificità dei contesti di origine, alle relazioni umane intessute, alle occasioni afferrate e a quelle perse, alle occasioni mai avute. E così molte scuole secondarie di secondo grado, ormai già da qualche anno, si sono attrezzate per promuoversi anche facendo leva, quando ovviamente va a loro giovamento, sui risultati Invalsi conseguiti e la posizione accaparrata nell’ultima classifica di Eduscopio[9]. E non va forse in questa direzione l’ultima abile trovata del ministro, di inserire cioè i risultati Invalsi nel curriculum d’uscita dello studente? Con lo stesso ministro, che a quanto pare considera ormai maturi i tempi per velocizzare il più possibile il processo in atto, siamo arrivati anche al punto di legittimare l’uso dei risultati Invalsi per minare l’autorevolezza di una singola scuola, come il caso recente di Pioltello ha lasciato prefigurare. In occasione dello scontro a ferro e fuoco con il dirigente della scuola che aveva osato chiudere il giorno di festa della fine del Ramadan, Valditara ci ha tenuto a evidenziare come i risultati Invalsi raggiunti dall’istituto fossero sotto la media della regione lombarda. Come non vedervi il potente messaggio sibillino che a questo collegio e a questo dirigente non è possibile dare più di tanto credito, per cui appare giustificata la necessità di un intervento dall’esterno? Ciò che dovrebbe stupire di più in questa storia è tuttavia la reazione del dirigente stesso, emblema di ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi e che ancora purtroppo non riusciamo a mettere davvero a fuoco. In risposta al suo suadente interlocutore, il dirigente in questione ci ha tenuto a evidenziare a sua volta che se in realtà si mettono a confronto i risultati della sua scuola con quelli delle scuole appartenenti alla stessa categoria, vale a dire con un ESCS basso [10], salta fuori che sono persino superiori. Il dirigente di Pioltello ci è cascato, ha adoperato le stesse parole degli Invalsi, lo stesso sguardo, pensando forse in questo modo di spuntarla sull’avversario. Ma ciò che va spuntata è piuttosto l’arma Invalsi che, come in ogni condizione di oggettivazione, crea la cosa per mezzo della parola. La prima mossa dell’oggettivazione, infatti, è proprio la creazione di categorie con la relativa tassonomia, in modo da appiattire la realtà in un’unica dimensione e cancellare così in un colpo solo ciò di cui la realtà si nutre e si sostanzia, ovvero della sua irriducibile molteplicità, accompagnata dalla variazione persistente dei punti di osservazione - sempre collocati - attraverso cui è possibile esaminarla, e renderla esistente. Che cosa può mai c’entrare quindi la scuola di Pioltello con, mettiamo, una scuola dei Quartieri Spagnoli? Cambiano gli studenti, cambiano le famiglie, cambiano i docenti e i dirigenti, cambia insomma l’intero paesaggio urbano e umano! Ma basta costruire un’equivalenza a priori, selezionando alcuni dati e oscurandone altri, per essere portati a credere che di realtà ne esista soltanto una, predeterminata e incontrovertibile. Come appunto la didattica. Poiché soltanto la didattica che risponde alle attese degli Invalsi funziona [11]; tutte le altre, per quanto eterogenee nei metodi e guidate da culture pedagogiche diverse, ma non certo dal mantra Invalsi, possono ridursi a un’unica categoria unidimensionale: la didattica che non funziona.
In fondo ci stiamo cascando tutti. Tutti stiamo normando il nostro sguardo, tutti stiamo prestando il fianco alla società disciplinare. Spacciata per la “società della conoscenza"[12].
di Pietro Levato
Certificazione delle competenze e cittadinanza contemporanea
di M. Gloria Calì
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In attesa delle linee guida, promesse dal DM del 30 Gennaio e ad oggi ancora non emanate, proviamo a capire qualcosa sulle novità portate dalla certificazione delle competenze 2024; tralasciamo consapevolmente la certificazione relativa all’istruzione per adulte e adulti, giacché, per quel segmento del sistema d’istruzione, valgono tratti specifici che vanno affrontati separatamente.

L’innovazione più evidente consiste nell’aver messo in continuità la forma della certificazione: dalla scuola primaria fino all’assolvimento dell’obbligo di istruzione, il modello propone le otto competenze chiave e le rispettive descrizioni, con il tentativo di calibrarle progressivamente negli ordini di scuola. E fin qua, potremmo anche salutare con favore un’operazione attesa da tempo: fino a ieri, il modello di certificazione era omogeneo solo per il primo ciclo, dalla primaria alla secondaria di primo grado, mentre, al biennio della secondaria di secondo grado, si cambiava del tutto impostazione non solo grafica, ma anche visione di fondo, giacché si centrava la certificazione sugli “assi culturali”.
La pubblicità quasi nulla che si è fatta a questo decreto, eccezion fatta per la comunicazione della FLC-CGIL, e di qualche altra riflessione critica [1] , ma poco diffusa, fa pensare che in realtà la presenza della certificazione nel sistema valutativo italiano sia percepito come un male necessario, non uno strumento che retroagisca sulla didattica; del resto, la realtà delle scuole conferma l’approccio ministeriale:  quello di cui si discute, a fine ciclo, sono sempre e soltanto le valutazioni sommative.
La certificazione delle competenze per come è stata concepita, in coerenza con le Indicazioni dei vari ordini di scuola, descrive, nei dettagli, comportamenti in apprendimento, metodi, approcci, sia ai saperi che alle relazioni, descrive disposizioni consapevoli, capacità di scegliere. Una grande occasione pedagogica, la certificazione, anche se ha un nome sgradevole: un dispositivo descrittivo (non inutilmente misurativo) che definisce un profilo di studente alla fine di un ciclo. Attenzione, quindi al tempo lungo della scuola, ai passaggi di crescita culturale, alla complessità della vita scolastica, fatta non solo di accumuli di nozioni, ma anche di acquisizione, uso e riuso di linguaggi, di relazioni.  Questa “nuova” certificazione delle competenze è stata emanata senza le linee guida, che, nelle precedenti edizioni, fornivano il quadro pedagogico, il “pensiero ispiratore” della formula, attivando (almeno nelle intenzioni degli estensori) processi di riflessioni sul nucleo essenziale del fare scuola: progettare, realizzare, valutare.
Inoltre, il testo esplicativo che accompagnava la precedente certificazione delle competenze chiariva il rapporto tra tutte le diverse dimensioni della valutazione, fornendo un manuale semplice per l’uso e la riflessione negli organi collegiali. Il fatto che su questo non ci sia una consapevolezza adeguata, nelle scuole, non avrebbe dovuto esimere il ministero dall’organizzare iniziative di condivisione e di formazione, per evidenziare il ruolo pedagogico della certificazione, che, invece, con l’avallo del silenzio istituzionale, è definitivamente ridotta ad un adempimento sostanzialmente sterile.
Nelle linee guida del 2017, al contrario, si precisava con chiarezza quanto fosse importante la certificazione delle competenze per dare indicazioni alla progettualità, e in che termini il documento finale fosse coerente con le Indicazioni nazionali. Lì si parlava di questioni essenziali come la trasversalità, il dialogo tra le discipline, la dimensione laboratoriale degli apprendimenti, la metacognizione con strumento di crescita autonoma; tutte questioni fondanti per realizzare apprendimenti significativi.
Nelle linee guida delle precedenti versioni del documento, infine, si dava chiaramente risalto al fatto che la certificazione non era solo affare dell’ultimo quadrimestre dell’ultimo anno, ma era necessaria processualità, e si invitavano le scuole a documentare un percorso che avrebbe portato, a conclusione del ciclo, alla descrizione conclusiva.
Provando a dare una lettura critica non dell’intero documento, ma di alcuni aspetti che ci appaiono rilevanti, notiamo che alcuni cambiamenti rispetto alla versione del 2017 ci indicano che non si tratta solo di una nuova formula per un adempimento, ma di un cambio nell’idea di scuola che, coerentemente, informa di sé la certificazione delle competenze, pur senza fare rumore mediatico.
Compaiono, ad esempio, i “valori costituzionali”, nell’area delle competenze di cittadinanza, scuola primaria, che poi diventa “Partecipare alle diverse funzioni pubbliche nelle forme possibili, in attuazione dei principi costituzionali.” Alla scuola media. Chissà che cosa vuol dire, questo descrittore, per un tredicenne.
Al termine dell’obbligo, il descrittore esplicita “Collocare l’esperienza personale in un sistema di regole fondato sul reciproco riconoscimento dei diritti garantiti dalla Costituzione”.
Questo riconoscimento di sé in quanto cittadina o cittadino deve, quindi, necessariamente passare dal confronto con la Costituzione italiana, di cui si può individuare la dimensione valoriale alla scuola primaria, quella fondante alla media, quella normativa alla secondaria di secondo grado.
Non ci sarebbe nulla di sospetto, in questo atteggiamento: quale migliore orizzonte di percezione di cittadinanza individuale che quello della nostra Costituzione, che garantisce diritti ed equità, a “tutti”? Ma chi sono questi “tutti”? Chi ha compilato la certificazione, forse (?) non ha tenuto conto di bambini e bambine che stanno nelle classi, ma non sono ancora “italiane” e “italiani”: i loro diritti sono stemperati perché provengono da oltre confine, ma devono pur adeguarsi ad un orizzonte valoriale e normativo “italiano”.
Nella stessa “competenza”, inoltre, il contatto con le diversità culturali è omologato, tra primaria e secondaria di primo grado, nell’espressione “dialogo e rispetto reciproco”. Manca qualcosa? Sì: l’integrazione, il contatto che diventa scambio e genera una cosa nuova, che non è l’accostamento di due “identità”. Nella secondaria di secondo grado, scompare del tutto l’incontro tra le differenze: le persone sono identificate unicamente in un sistema di diritti/doveri, norme/responsabilità. Si assottiglia, nella scuola di questa certificazione, il valore non tanto della co-esistenza, quanto piuttosto della con-vivenza, che, invece, descritto in un documento ministeriale avrebbe una possibilità anche minima ma reale di far ragionare seriamente gli insegnanti sulla convivialità delle differenze che fanno di una classe non un elenco di cognomi ma una comunità.
Notiamo, inoltre, che la competenza “di cittadinanza” è scorporata da “competenze sociali e personali”, sorprendentemente, giacché saremmo portati a pensare che la cittadinanza, si realizzi in società.
Competenze sociali e personali sono, invece, accorpate con l’”imparare ad imparare”, che è un abito metodologico della persona in apprendimento permanente, più strettamente connesso con i saperi disciplinari che con l’area delle relazioni e della partecipazione pubblica.  Ci domandiamo quale sia il criterio di questa scelta.
Possiamo provare ad interpretare questa articolazione come il tentativo di ancorare la “competenza di cittadinanza” all’educazione civica, la cui portata normalizzatrice si è rivelata molto meno efficace rispetto alle aspettative originarie dei promotori, giacché, come s’è detto molte volte, attiene non ad un elenco di argomenti o, peggio, di prescrizioni, ma è insita nel valore formativo delle discipline in quanto ossatura portante della scuola.
Rileviamo infine la trascuratezza con cui viene trattata, in questo nuovo modello, la “competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturale”: uguale descrittore tra primaria e media, all’assolvimento dell’obbligo di istruzione viene declinata come una competenza essenzialmente tecnica, sbilanciata sui “linguaggi” e centrata su “contenuti” tra cui troviamo ammucchiate “norme”, “procedure” e “stati d’animo”; storia e geografia, tempo e spazi, vengono frettolosamente liquidate in tre righe. Questo approccio speditivo alla complessità, questa frettoloso accenno alle dimensioni “diacronica” e “sincronica” delle questioni, ci fa pensare che storia e geografia delle questioni, anziché essere approcci di lettura e interpretazione del reale, strumenti di decisioni consapevoli nell’ottica della cittadinanza intenzionale e realmente inclusiva,  sono declassate ad orpelli, giacché, oggi, è opportuno concentrarsi sull’idea che la/lo studente deve perseguire, con l’occhiuta osservazione dei suoi docenti: il dover essere, e dover essere bravo, rispettoso delle regole, desideroso di lavorare e guadagnare.
Noi continuiamo a pensare che alunni e alunne crescano in una dimensione contemporanea in cui la cittadinanza assume aspetti variegati e complessi, comprendendosi come attitudine alla convivenza non solo rispettosa, ma capace di riconoscere l’alterità come dimensione generativa nei confronti della vita umana e non umana. La scuola ha il dovere di assumere la prospettiva della complessità, e liberare le energie culturali, educare alla conoscenza come dinamica di sviluppo che induce modalità di relazione e di partecipazione consapevole, di domande da porre e di risposte da cercare in prospettiva comunitaria.
Questo aveva previsto la Costituzione italiana tanto menzionata, che, all’articolo 3, parla di “pieno sviluppo della persona umana”, senza distinzioni. L’appartenenza a quell’orizzonte consente, attraverso il sapere, un’esperienza di crescita nella partecipazione alla realtà contemporanea. Lo certifichiamo.
Scuola, ritorno al passato. A che serve la riforma del voto in condotta?
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Mentre diventa sempre più evidente la visione di scuola del ministro Valditara con gli ultimi provvedimenti - tra cui il ddl valutazione - è fondamentale proporre una relazione insegnante-studente in cui prevalga la dimensione della ricerca, dell'interesse e della comprensione profonda
Rivolgendo il nostro interesse al mondo della scuola ci chiediamo quale sia il senso di molte delle posizioni dell’attuale ministero dell’Istruzione e del merito nei confronti della scuola e degli studenti. Dopo la carica della polizia a Pisa nei confronti di studenti che manifestavano pacificamente – un atto violento nei confronti di adolescenti che avrebbero il diritto di essere accompagnati nel’ingresso alla società in tutt’altro modo – ci chiediamo quale sia il filo che lega quell’episodio ad interventi che vorrebbero riportare ad un passato che non esiste più: non c’è errore peggiore, quando ci si rapporta alle nuove generazioni, del non cercare di comprendere il presente in cui essi vivono.
L’ennesimo divieto dei cellulari in classe, nei termini in cui è posto, non solo rischia di far sembrare la scuola sempre più lontana dal mondo in cui i ragazzi vivono ogni giorno ma esprime anche l’ottusità di non comprendere che per la scuola è importante avviare riflessioni per un utilizzo delle tecnologie digitali che risponda alle finalità della scuola e non solo alle richieste del mondo del lavoro. Ricordiamo, inoltre, che è in discussione un disegno di legge in merito a “Revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti” nel quale non si tiene per nulla conto non solo delle attuali acquisizioni della psico-pedagogia in merito al tema della valutazione ma neanche dei cambiamenti che negli anni si sono avuti nella società e quindi nella scuola.
Negli ultimi decenni gli adulti vivono, con le nuove generazioni, sia in famiglia che a scuola un rapporto molto diverso dal passato. L’essere genitori si esprime con modalità di vicinanza, talvolta addirittura di tipo amicale, nei confronti dei figli e non dimentichiamo che in seguito ai movimenti del Sessantotto abbiamo assistito al crollo, sia in ambito scolastico che familiare, di una vecchia idea di autorità. Nei nostri giorni gli insegnanti debbono proporre di sé una immagine autorevole che non può essere imposta ma deve scaturire dall’identità professionale e personale. Chi vive nella scuola sa che “rispetto” e autorevolezza non si ottengono con proibizioni o imposizioni ma realizzando un contesto relazionale in cui i ragazzi abbiano la possibilità di esprimersi nella ricerca di sé stessi.
Ma, a vedere più in profondità, non si tratta solo di ritorno al passato: i manganelli dei poliziotti contro gli studenti minorenni forse sono sorretti da una idea dell’essere umano visto come “cattivo” per natura e che, pertanto, deve essere controllato, punito, umiliato. Ricordiamo le parole di Valditara, ronunciate nel novembre del 2022 in seguito ad un episodio di violenza in una scuola, parole che nessuna rettifica riesce ad attutire: «Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità».
Ogni adulto che si relaziona con un adolescente dovrebbe, sempre e comunque, essere mosso da interesse per la realizzazione umana della ragazza o del ragazzo. Per un insegnante l’aspetto relazionale della propria professione è fondamentale ed estremamente delicato: ogni giorno in classe egli vive quell'incertezza presente nelle relazioni umane, caratterizzate dal continuo movimento interiore dell’essere esseri umani. Cercare di comprendere alcuni comportamenti degli adolescenti può consentire all'adulto di andare incontro alle loro esigenze. Ogni ragazza o ragazzo, nella ricerca della propria identità, si cimenta con nuove esperienze di vita e può anche commettere degli errori ma sono gli adulti a sbagliare se pensano che i metodi punitivi possano essere la strada giusta. Per favorire la costruzione di identità di una ragazza o di un ragazzo è fondamentale il confronto aperto e non giudicante. Il solo provvedimento punitivo, come sa bene chi vive quotidianamente con adolescenti, non rappresenta mai nulla di buono perché non offre occasione per il cambiamento. Gli adolescenti, talvolta, arrivano alla scuola superiore con il pesante bagaglio di delusioni già riserbato loro dagli adulti senza essere in grado di riconoscere quanto queste delusioni abbiano incrinato le loro possibilità di espressione umana. Rapporti validi con gli insegnanti e i compagni potrebbero far vivere esperienze in grado di riaccendere fiducia nella ricerca della loro bellezza umana.
Se un insegnante è guidato dalla certezza, non solo del valore formativo di ciò che insegna, ma anche dal riconoscere che la ricerca di rapporti umani validi, della conoscenza di sé, degli altri e del mondo siano esigenze di tutti gli esseri umani è sulla strada per trovare il modo migliore di rapportarsi con un adolescente e nello stesso tempo perseguire le finalità della scuola. Un insegnante può riuscire a realizzare in classe quel clima positivo che favorisce non solo l’apprendimento ma anche la crescita personale e sociale degli studenti.
Essere insegnanti nella scuola di oggi è una professione di estrema complessità che dovrebbe essere sostenuta con adeguata formazione e riconoscimento sociale. Questa complessità richiede che gli insegnanti siano sempre attenti osservatori: un atteggiamento di continua ricerca è caratteristica della loro professionalità e, pertanto, diventano necessari confronto collegiale e adeguata formazione.
La professionalità dell’insegnante si esprime lungo tre direzioni che non procedono in modo lineare ma si intersecano e si alimentano a vicenda. Un insegnante per insegnare, per esempio, la matematica a Giulia, come afferma una frase famosa di John Dewey, deve amare la matematica, amare insegnare la matematica e amare Giulia. La parola amare si ripete tre volte ma ha tre significati necessariamente differenti, la comprensione di ognuno di questi significati intreccia sensibilità umana e conoscenza. L’insegnante di matematica deve conoscere profondamente la disciplina che insegna ma la sua attenzione per essa è ben diversa da quella del matematico che lavora in altro ambito e per realizzare questa particolarità deve amare insegnare. E questo “amare insegnare” non può prescindere dall'interesse per lo studente.
Un insegnante cerca ogni giorno il modo migliore per insegnare la matematica avendo sempre presente anche la realtà di quel particolare studente e di quella data classe, perché sa che altrimenti il suo lavoro rischia di fallire. Certamente qualche studente, sostenuto da particolari doti personali o proveniente da un ambito familiare favorevole, può raggiungere comunque buoni risultati, ma non sono questi studenti che veramente hanno bisogno dell’insegnante. Questo interesse-amore per ogni singolo studente, è sostenuto dalla incessante ricerca di conoscere come quello studente pensa, ragiona, si appassiona. Questo interesse nei confronti dell’adolescente non è “buonismo” e non ha nulla a che fare con quel “lassismo” a cui parole come controllo, punizione, merito pensano di opporsi. È invece un continuo lavoro di ricerca perché l’insegnante, non abbandonando mai le finalità della scuola della Costituzione e l’idea della funzione socializzante della cultura, pretende che lo studente esprima al massimo le sue potenzialità, quelle potenzialità che l’apparenza talvolta può nascondere.
Gli insegnanti sanno come tutto questo non sia affatto semplice e non sempre si raggiungano i risultati desiderati ma sanno che vale sempre la pena di cercare di offrire il più possibile ad un adolescente evitando, anche, di assumere i tanto declamati “atteggiamenti carismatici”, stile insegnante del film L’attimo fuggente il quale, nell’affermazione narcisistica di sé, non è in grado di entrare veramente in rapporto con i propri studenti. Ogni giorno gli insegnanti cercano di lasciare liberi i propri studenti nella loro realizzazione umana provando ad essere quello stimolo costruttivo e quel sostegno che sono possibili nella specifica realtà della scuola, nel suo non essere né ambiente familiare né intervento psicoterapeutico. Concludiamo con una frase della lettera degli insegnanti degli studenti di Pisa: «Come educatori siamo allibiti di fronte a quanto successo oggi. Riteniamo che qualcuno debba rispondere dello stato di inaudita e ingiustificabile violenza cui sono stati sottoposti cento/duecento studenti scesi in piazza pacificamente …».
L’autrice: Assunta Amendola, docente di informatica e matematica, psi­cologa dell’età evolutiva, coautrice di “Adolescenti nella rete” (L’Asino d’oro edizioni)




CATTEDRA INCLUSIVA TRA UTOPIA E REALTA’
di Giuseppe Bagni, Segreteria nazionale CIDI
Sono già intervenuto sull’argomento e non voglio ripetermi. Desidero però fare alcune osservazioni prendendo spunto dalla piega che sta prendendo il dibattito, perché temo che si rischi di perdere di vista il nocciolo del problema per il quale è stata fatta la proposta di legge. Se si vuole raccogliere dei consensi o dei contributi di riflessione su una proposta e trovare eventualmente le giuste mediazioni, bisogna che sia chiaro il problema che affronta e l’obiettivo che si vuole raggiungere vedendo ciò che è più funzionale e ciò che lo è meno nella proposta e nelle obiezioni.
In caso contrario qualsiasi discussione prende la piega di un’esternazione di punti di vista in base al proprio umore o peggio dei propri orientamenti ideologici condivisibili o meno facendo naufragare ciò che di positivo è possibile fare utilizzando la suggestione della proposta..
LA “GRANDE MALATTIA”
Il fatto che le “certificazioni” siano aumentate è sicuramente un dato certo come scrive Raffaele Iosa in “Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta?”(https://www.gessetticolorati.it/dibattito/2024/02/11/il-declino-dell'inclusione-scolastica-cambiare-radicalmente-rotta-a-proposito-dei-dati-istat-2022-23/).
Io però non sono del tutto d’accordo nel credere che sia il frutto di una generalizzata volontà di medicalizzare le difficoltà di apprendimento.
Le difficoltà di apprendimento esistono indipendentemente che siano o meno certificate così come esistono gli stili di apprendimento e i bisogni più o meno “speciali” e riguardano tutti gli studenti. L’esplosione della “grande malattia” ha per me un’origine diversa da una generica volontà di medicalizzare i comportamenti degli alunni. La “grande malattia” non è la causa del problema del “ declino dell’inclusione” bensì un effetto. Andare più a fondo di questo effetto permette di definire meglio il problema e individuare qual è effettivamente l’obiettivo da raggiungere.
Io penso e credo che vi siano stati due approcci diversi che hanno favorito il proliferare delle certificazioni : quello dei genitori e quello dei docenti e non sono due atteggiamenti culturali”, ma partono da esigente molto concrete. Diverse famiglie hanno visto nella certificazione, ovviamente nei casi di disabilità non grave, un mezzo attraverso il quale poter chiedere alla scuola di prendersi cura dell’apprendimento del proprio figlio perché la certificazione impone per legge degli obblighi ai docenti. In altre parole si tratta della richiesta ai docenti di dichiarare quali sono gli impegni che si prendono perché molte famiglie hanno perso fiducia nel fatto che la scuola si impegni realmente in questo.
Leggere il PTOF, le presentazioni delle attività, i progetti va bene, ma il genitore di uno studente con qualche difficoltà che si sente responsabile del suo futuro vuol sapere cosa fa la scuola nel concreto per metterlo in grado di far imparare il proprio figliolo. L’insegnante che dice di aver studiato per insegnare la sua disciplina in realtà ha le idee confuse sulla sua professione e nella comunicazione con le famiglie addossa spesso allo studente la responsabilità di non aver ottenuto la sufficienza per non aver studiato, non aver fatto i compiti e altro, mentre lui, insegnante, ha fatto quel che doveva “spiegando” la materia e chiedendo alla famiglia di intervenire sul ragazzo per farlo impegnare di più, poco importa ad esempio se metà classe è insufficiente.
Quante volte si sente nelle assemblee di classe qualche docente che si lamenta di non poter svolgere il “programma” perché è rallentato dalla presenza di molti studenti in difficoltà! Va ricordato a quel docente che far apprendere vuol dire trovare il modo più adatto a “connettere determinati allievi – aventi le loro esperienze, le loro preconoscenze, i loro stili di apprendimento ecc. – con determinati contenuti culturali, ciascuno caratterizzato da una propria struttura logica e metodologica.» ( da M.Castoldi) .
Il “mestiere” del docente quindi non sta solo nel conoscere la disciplina e “spiegarla”, ma nel saper far apprendere la propria disciplina.
L’utilizzo della certificazione da parte dei genitori per chiedere che la scuola faccia il suo lavoro è ancora più vero a mio parere per gli studenti con DSA., le cui vicende ho seguito da vicino negli anni di servizio, studenti presi troppo spesso per svogliati, indolenti, distratti ecc.
Molte delle associazioni, per quanto mi risulta, sono molto determinate nel non volere che tali studenti vengano medicalizzati ribadendo in tutte le sedi che quelli che sono stati definiti ambiguamente “disturbi specifici” sono in un certo senso degli stili di apprendimento e in quanto tali vanno trattati attraverso una didattica realmente inclusiva come per gli altri stili e non con una didattica speciale, le misure compensative non sono tra queste..
La certificazione per i docenti invece ha, a volte, un significato diverso. Spesso sono i docenti stessi a sollecitare ai genitori la certificazione immaginando così di aiutare lo studente facendosi autorizzare, grazie alla certificazione intesa come medicalizzazione, a trattarlo in modo diverso dai compagni senza considerare la possibilità di trovare invece una modalità adatta a “compensare” queste difficoltà costruendo una lezione per tutti che permetta a questo studente di apprendere come e con gli altri.
Nessuna legge vieta di utilizzare a discrezione misure compensative o dispensative per tutti gli studenti che abbiano difficoltà in alcune operazioni indipendentemente dalla certificazione.
Quindi andando al sodo, dietro la “grande malattia” vi è un “grande equivoco” che coinvolge in pieno il mondo della scuola. Qualsiasi progettazione didattica parte dalla situazione reale della classe e dei suoi studenti e l’individualizzazione e la personalizzazione non avrebbero bisogno di una certificazione per essere perseguiti nel modo più opportuno perché fanno parte del “lavoro” del docente per “far apprendere” e sono espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia didattica. Le certificazioni al massimo sono uno strumento informativo per meglio progettare l’attività didattica della classe. Ne consegue che la scelta dei metodi e delle tecniche di qualunque natura sono funzionali alla situazione della classe, dei singoli studenti e agli obiettivi da raggiungere. Su questo sono d’accordo con Iosa, Ma non è quello che la stessa normativa generale chiede da sempre di fare? Perché questo non è avvenuto e non avviene ? Questo è il vero problema.
I “ Bisogni Educativi Speciali” è vero sono spuntati ad un certo punto come un fungo nella normativa, ma a mio avviso, non sono una “trovata” estemporanea del burocrate di turno, ma vanno letti nel senso di una presa d’atto che tutte le indicazioni date a partire dagli anni ‘70 in decreti, circolari , Indicazioni nazionali e note sul compito della scuola di prendersi cura concretamente dei bisogni formativi degli studenti all’interno della propria progettazione attraverso l’individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi ( il famoso “non uno di meno”) non avevano sortito nulla o poco a livello nazionale al di là delle eccellenze..
Il ricorso all’introduzione di una serie di disposizioni formali e vincolanti di programmazione dell’individualizzazione sono state la risposta “politica”, probabilmente errata , al malumore delle famiglie per una situazione che si era di fatto creata. Fare il PEI o il PDP però non dà automaticamente la competenza al docente di gestire l’apprendimento in aula di una classe eterogenea. Non è applicando dei protocolli individuali che si crea un contesto favorevole all’apprendimento per tutti, né l’inclusione. Invece di chiedersi il perché i docenti non riuscivano a fare quello che già la legge prevedeva hanno preferito trovare la scorciatoia dell’obbligo. Allora ripropongo la domanda, perché tutto questo è avvenuto? Non tanto per una cattiva volontà dei docenti, ma per una mancata formazione iniziale e in servizio su come fare una didattica inclusiva e su come gestire le difficoltà di apprendimento in una scuola di massa qual è quella voluta dalla Costituzione. E’ il profilo del docente curricolare che andava cambiato. Gli insegnanti curricolari, con la scusa dell’autonomia, sono stati lasciati a sbrigarsela da soli a fronte di un contesto profondamente cambiato senza avere gli strumenti per gestire questa complessità. Questo va detto per sostenere la proposta.
IL GRANDE EQUIVOCO DELLA CATTEDRA DI SOSTEGNO
La mancata formazione di tutti i docenti all’inclusione deriva dalla scelta a livello legislativo fatta in occasione dell’abolizione delle classi differenziali di formare solo una parte dei docenti per l’insegnamento agli studenti con disabilità certificata, come se avessero dovuto affiancarli in aula per tutte le ore facendo credere alle famiglie e anche ai docenti curricolari che l’insegnante di sostegno avrebbe risolto tutti i problemi di apprendimento e di inclusione. La verità è che con l’introduzione del docente di sostegno non si è risolto il problema dell’apprendimento dello studente né dell’inclusione, ma si è messa la solita pezza per nasconderlo. L’insegnante di sostegno assolve sicuramente ad un ruolo importante, ma non c’è nulla di più eterogeneo della disabilità, ogni alunno ha i suoi bisogni ed è per questo che viene definita una presenza in classe del docente di sostegno diversa da caso a caso, comunque per un numero ridotto di ore rispetto all’orario di lezione completo (aggiungo io, per fortuna), di conseguenza far apprendere gli alunni con disabilità non è un compito esclusivo del docente di sostegno, ma è anche un compito a cui concorre il docente curricolare che non può sottrarsi giacché copre il resto delle ore. Insegnare agli studenti con disabilità fa dunque parte del lavoro del docente curricolare nonostante vi sia una percezione diversa nell’immaginario collettivo.
Questa non è un’opinione, è un dato di realtà da cui partire per trovare una soluzione.
ARRIVIAMO AL PROBLEMA.
Un errore strategico questo i cui nodi sono venuti al pettine quando si è cominciato a capire che:
a) i bisogni speciali non sono solo quelli degli studenti con disabilità elencati nella legge 104, ma anche altri ;
b) che i bisogni speciali possono essere anche temporanei e di origine sociale;
c) che anche la presenza di stili di apprendimento diversi richiede un approccio inclusivo all’apprendimento;
d) che l’inclusione non riguarda gli alunni in difficoltà, ma tutti gli studenti. L’inclusione è la condizione che fa del gruppo classe un dispositivo per l’apprendimento di tutti perché favorisce proprio quel contesto di relazioni positive che permette al docente di connettere i propri allievi con le conoscenze della propria disciplina.
L’inclusione non è semplicemente un “valore” o un “principio” o una buona azione, ma una condizione perché il docente possa fare il proprio lavoro. Va data dunque una rilevanza professionale alla proposta..
Invece di affrontare il problema causato dalla mancata formazione dei docenti curricolari, come si è detto, si è aggiunta la pezza dei BES, da qui il “declino dell’inclusione” è diventato un problema vero e proprio.
La conseguenza di tutto questo è che la scuola è diventa, come scrive Iosa, non una “comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche” . Ma cosa ci si poteva aspettare da un Ministero che pensa che la governance del sistema delle autonomie sia solo amministrativa e non anche e soprattutto pedagogica e didattica (vedi la mortificazione del ruolo assegnato oggi agli ispettori nonostante quello che sarebbe dovuto essere il loro inquadramento con le nuove norme e la triste fine degli IRRSAE di cui non è rimasto più neppure il ricordo del loro prezioso ruolo nella formazione in servizio e nell’innovazione negli anni d’oro delle sperimentazioni).
La questione centrale per un discorso sull’inclusione è come far sì che un docente curricolare abbia le competenze per affrontare e gestire in modo unitario l’eterogeneità di un gruppo classe. Tutti dovrebbero aver consapevolezza che la formazione iniziale del docente curricolare non prevede competenze di gestione né degli studenti disabili, né, voglio aggiungere, degli studenti con bisogni speciali ad esempio quelli con DSA, né di come gestire dal punto di vista dell’apprendimento un gruppo eterogeneo di studenti con problematiche e stili diversi in modo unitario.
Se è questo il problema forse varrebbe la penna di lavorare per risolverlo. La proposta di legge sulla cattedra inclusiva oltre ad essere molto suggestiva in che misura può affrontare realmente il problema in mezzo a tanti pregiudizi e fake presenti nell’opinione pubblica?
UNA CATTEDRA INCLUSIVA O UN DOCENTE INCLUSIVO ?
La proposta di far acquisire al docente curricolare una preparazione tale (possiamo chiamarla anche specializzazione) da poter affrontare i bisogni speciali dei suoi allievi e la gestione di una classe eterogenea è a mio avviso una risposta funzionale al problema tenendo presente che la formazione è anche carente sul piano delle competenze relative soprattutto alla relazione educativa e alle dinamiche di gruppo che tanto peso hanno nell’inclusione..Se si vuole dare forza ad una proposta che riesca ad affrontare il problema è meglio puntare sul docente curricolare inclusivo che a mio avviso coinvolgere in modo più chiaro e diretto gli interessati, cioè i docenti curricolari, le famiglie e gli studenti. Perché un docente su posto comune dovrebbe aver voglia di impegnarsi in un tale cambiamento? Solo per un ideale o perché il cambiamento può anche migliorare le sue condizioni di lavoro attuali e la sua realizzazione professionale? Io credo che possa essere per questo. Perché le famiglie dovrebbero appoggiare la proposta? Perché può andare incontro alle aspettative di tutte le famiglie un docente preparato a prendersi cura dei propri figli sia che siano fragili, sia talentuosi e che riesca a portare al successo la propria classe..
Un vantaggio per l’insegnante diventa un vantaggio per gli studenti con BES , le loro famiglie e gli studenti che qualcuno definisce “cosiddetti normali” per una gestione più efficace, serena e cooperativa delle dinamiche del gruppo classe che favorisce l’apprendimento di tutti.
In merito alle riserve avanzate da qualcuno sulla reale possibilità di formare tutti i docenti, credo che non possa essere motivo per cassare una proposta. Chi respinge la proposta solo con questi argomenti fa finta di non vedere il problema. Abbiamo individuato un problema reale all’origine del “declino dell’inclusione” e una soluzione ragionevole e necessaria sul piano professionale che poi valorizza anche il ruolo del docente e può volendo aprire ad una motivata revisione dello stipendio a fronte di un miglioramento della qualità della prestazione.
Il modo di pensare i contenuti e la modalità ella i formazione in base alle problematiche di attuazione è una responsabilità che, chi di dovere dovrebbe prendersi.
DALL’UTOPIA ALLA POSSIBILITA’
Avere una cattedra unica per il posto comune e per il sostegno con dei docenti che possono essere impegnati nell’uno o nell’altro incarico permetterebbe in teoria una reale flessibilità nell’utilizzo della risorsa e potrebbe affrontare le difficoltà che oggi ci sono nel reclutamento dei docenti di sostegno . Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quado si propone che ciascun docente una volta formato utilizzi il monte ore della propria cattedra inclusiva sui due posti, comune e di sostegno, che comunque rimangono distinti. Ci si domanda come utilizzare tale flessibilità calandola nell’organizzazione della scuola qual è ora perché possono esserci diversi problemi non di poco conto di cui ho già scritto. .
Introdurre l’obbligo di destinare a ciascun docente una parte dell’orario di cattedra sul sostegno e l’altra sulla disciplina a livello di istituto, come vorrebbe la proposta, creerebbe, a mio parere, non poche difficoltà nell’assegnazione dei docenti alle classi e conseguentemente nella possibilità di predisporre un orario dignitoso per tutti (studenti e docenti), nel poter assegnare i docenti in base ai bisogni degli studenti e non con criteri burocratici, senza parlare del poter organizzare le riunioni dei consigli di classe e degli scrutini alla presenza di tutti i docenti che lavorano sulla classe. E poi quante ore per l’uno e per l’altro incarico? Chi lo stabilisce, il dirigente? Forse una soluzione intermedia più fattibile sarebbe avere un docente curricolare su cattedra inclusiva su tutte le ore del posto comune ed uno sempre con tutte le ore su posto di sostegno con possibilità da studiare una modalità di passaggio da un posto all’altro in base a taluni vincoli anche attraverso procedure interne allo stesso istituto seguendo le necessità della progettualità collegiale, valorizzando così l’autonomia (in realtà che autonomia è un’autonomia che impedisce di utilizzare in modo flessibile le risorse umane!) Cosa diversa sarebbe se si potesse costituire una sorta di organico dell’autonomia per
biennio o per sezione in cui ai docenti con cattedra curricolare con più classi vengano  assegnate solo quelle della sezione o del biennio in modo da poter essere impegnati nel completamento dell’orario di cattedra in attività di potenziamento o di sostegno, un organico che può essere arricchito con ulteriori docenti prelevati dalla dotazione di potenziamento di istituto. In questo caso un docente di cattedra inclusiva potrebbe spendere le sue ore su entrambi i posti senza che questo crei complicazioni organizzative. Si tratta di utilizzare lo stesso principio dell’organico dell’autonomia questa volta non sulla scuola ma su singole unità operative. In questo modo si formerebbe un’équipe di docenti e le ore di copresenza per il sostegno potrebbero essere gestite dai docenti della sezione o del biennio ad esempio in una riunione collegiale iniziale in base alla situazione delle classi e ai bisogni degli studenti alla stregua di come si fa per le compresenze nei progetti o UdA tenendo ovviamente conto dei vincoli nell’assegnazione del monte ore individuale agli studenti con disabilità.
Questa soluzione risolverebbe anche il problema dei docenti curricolari con 6 o 8 classi per i quali sarebbe difficile accedere ad una cattedra inclusiva con doppio incarico. Una soluzione che valorizzerebbe certo l’autonomia e il ruolo progettuale dei docenti, ma che andrebbe ben studiata anche in relazione ai vari indirizzi di studio e ai cicli. Limitarsi a potenziare la formazione dei docenti su posto comune come si è scritto sopra facendone dei docenti inclusi sarebbe già un notevole risultato e un cambio di prospettiva anche culturale riportando al centro l’unitarietà dell’insegnamento e chiarendo il ruolo paritario e complementare del docente di sostegno e di quello curricolare nello sviluppo del curricolo disciplinare e trasversale dello studente..
Anche nel caso di non unire le due cattedre e lasciare la cattedra di sostegno come è ora potrebbe però essere possibile comunque fare ancora qualcosa di più per migliorare la qualità dell’inclusione.
Si potrebbe fare anche del docente di sostegno come del docente curricolare,un docente inclusivo con una formazione ancora più arricchita sul piano psicosociale anche valorizzando nelle graduatorie e nell’accesso gli aspiranti provenienti dalle lauree in scienze pedagogiche costretti a prestare servizio nella scuola tramite il lavoro precario nelle cooperative. Ciò permetterebbe al docente di sostegno non solo di seguire gli studenti con disabilità, ma di avere una competenza più specifica per coordinare in modo professionale l’azione di inclusione dei consigli di classe in cui opera riservando a questo compito anche una parte dell’orario di cattedra per attività di progettazione, tutoring, consulenza ai docenti e alle famiglie.. Sarebbe l’occasione per assegnare loro la qualifica di “docente esperto”.( Legge 79/2022) con relativo ritocco dello stipendio provando a dare un utilizzo più accettabile a tale qualifica perché legata ad un compito specifico rispetto al solo insegnamento uguale per tutti e aprendo la strada all’introduzione di vere e proprie figure di sistema.
Potrebbe essere un incentivo per il reclutamento di risorse motivate con la prospettiva di svolgere un’attività più gratificante, utile e con uno sviluppo professionale..
Anche questo potrebbe essere un “cambio di rotta” significativo e un’idea per la discussione nonostante non coincida perfettamente con la proposta di legge.

E-mail: cidivalderavaldicecina@gmail.com
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